CASTITA’ CONSACRATA – MADRE TERESA DI CALCUTTA

CASTITA’ CONSACRATA – MADRE TERESA DI CALCUTTA

Il celibato sacerdotale, segno della carità di Cristo

di Madre Teresa di Calcutta

Leggiamo nelle Scritture come Gesù venne a proclamare la Buona Novella che Dio ci ama. Oggi lui vuole che noi siamo quell’Amore. Gesù ha detto: “L’avete fatto a me ” (Mt 25,40). Ero affamato, nudo, forestiero e abbandonato e mi avete fatto queste cose. Io lo chiamo vangelo sulle cinque dita.

Tutti sono chiamati ad amare Dio con tutto il cuore, l’anima, l’intelligenza e le forze e, per amore di Dio, ad amare il proprio prossimo. La notte prima della sua morte Gesù ci ha dato due grandi doni: il dono di se stesso nell’Eucaristia e il dono del sacerdozio per continuare la sua presenza viva nell’Eucaristia.

Senza sacerdoti non abbiamo Gesù.

Senza sacerdoti non abbiamo l’assoluzione.

Senza sacerdoti non possiamo ricevere la Santa Comunione.

Come il Padre ha preparato per suo Figlio una degna dimora nel Seno Innamorato di una Vergine, cosi è opportuno che un sacerdote si prepari a prendere il posto di Gesù, il Figlio di Dio, scegliendo liberamente il celibato sacerdotale.

Il matrimonio e la procreazione sono miracoli dell’amore di Dio per mezzo dei quali uomini e donne diventano suoi collaboratori nel portare una nuova vita al mondo. Gesù ha parlato però chiaramente di qualcosa persino più grande di questo quando ha detto che in cielo le persone non si sposano né vengono date in matrimonio, ma vivono come gli angeli nei cieli, e che ci sono alcuni che hanno rinunciato al matrimonio per amore del Regno di Dio.

Il celibato sacerdotale è il dono che prepara alla vita nei cieli. Gesù chiama i suoi sacerdoti a essere suoi collaboratori nella Chiesa, a riempire il cielo di figli di Dio.

“ Un giorno due giovani si presentarono alla nostra casa e mi diedero una grande somma di denaro per nutrire il Popolo, perché a Calcutta, come sapete, noi sfamiamo ogni giorno molti poveri. Chiesi loro dove avessero preso tutto quel denaro, ed essi risposero: “Due giorni fa ci siamo sposati e prima del matrimonio abbiamo deciso che non avremmo acquistato gli abiti nuziali, che non avremmo dato un ricevimento di nozze, ma che invece vi avremmo dato quel denaro per sfamare i poveri”. Era un gesto straordinario per degli Indù di ceto sociale elevato. Domandai allora: “Perché lo avete fatto?. Ed essi risposero: “Ci amavamo talmente che volevamo dividere la gioia di questo amore con le persone che voi servite” ”.

Per me questa bellissima storia di due persone che si amano rappresenta un segno vivo dell’unione di Gesù con i suoi sacerdoti. Qui il sacrificio non consiste nel denaro o in cose materiali, ma in un dono più alto e migliore, quello del celibato sacerdotale. Il dono più grande che una persona può offrire a Gesù il giorno in cui diventa sacerdote è un cuore verginale, un corpo verginale. Noi lo chiamiamo celibato sacerdotale. E’ come l’amore verginale di Cristo per la sua Chiesa, che i sacerdoti rappresentano. La Chiesa è il corpo di Cristo, è la sposa di Cristo.

Il celibato non è soltanto la nostra capacità di dare, ma ancor più la nostra capacità di accogliere il dono di Dio, la scelta di Dio. Meditate devotamente sul fatto che Lui, il Creatore dell’Universo, ha tempo per voi, Sue piccole creature.

Il celibato sacerdotale crea un vuoto che ci permette di ricevere l’altro dono meraviglioso che soltanto Gesù può offrire e regalare, il dono dell’amore divino. In primo luogo Gesù offre il prezioso dono di se stesso per un’amicizia con lui personale e fedele che dura tutta la vita, nella tenerezza e nell’amore. Nulla farà venire meno la sua fedeltà. Lui rimane fedele.

Cari collaboratori di Cristo, voi avete detto “Si” a Gesù e lui vi ha presi in parola. La parola di Dio è divenuta Gesù, il povero. Il vostro celibato sacerdotale è il terribile vuoto che sperimentate. Dio non può riempire ciò che è pieno. Può colmare soltanto il vuoto; la grande povertà e il vostro “ si ” segnano l’inizio dell’essere o del divenire vuoti. Non si tratta tanto di quanto effettivamente “ abbiamo ” da dare, ma di quanto siamo vuoti, in modo da poter ricevere pienamente nella nostra vita e di far si che Lui viva la sua vita in noi. Oggi lui vuole rivivere in voi la sua completa sottomissione al Padre; consentitegli di farlo. Non importa quello che provate, ma ciò che egli sente in voi. Distogliete lo sguardo da voi stessi e rallegratevi di non avere nulla, di non essere nulla, di non poter far nulla. Ogni qualvolta questa vostra nullità vi spaventa, fate un gran sorriso a Gesù. Questa è la povertà di Gesù. Voi e io dobbiamo far si che lui viva in noi e, attraverso di noi, nel mondo. Stringetevi alla Nostra Signora, perché anche lei, prima di diventare piena di grazia, piena di Gesù, ha dovuto attraversare questo buio. “ Com’è possibile? ”, ha chiesto. Ma nel momento in cui ha detto “ si ” ha sentito il bisogno di affrettarsi e di portare Gesù a Giovanni e alla sua famiglia. Continuate a donare Gesù alla gente non con le parole, ma col vostro esempio, con il vostro amore per lui, irradiando la sua santità e diffondendo la sua fragranza di amore ovunque andate. Fate si che la gioia di Gesù sia la vostra forza. Siate lieti e in pace, accettate tutto ciò che lui vi dona, e accogliete tutto ciò che lui prende con un gran sorriso. Voi appartenete a lui; diteglielo: “lo sono tuo ”, e se fossi tagliato a pezzi, ciascun pezzo non sarà altro che tuo. Fate si che Gesù sia in voi vittima e sacerdote.

Scegliendo liberamente il celibato sacerdotale, il sacerdote rinuncia alla paternità terrena per accogliere la partecipazione alla paternità di Dio.

Invece di diventare padre di uno o più figli sulla terra, egli adesso è in grado di amare tutti in Cristo. SI, Gesù chiama il suo sacerdote a portare l’amore tenero del Padre a tutti e a ciascun uomo. Per questo motivo la gente lo chiama “ Padre ”.

Il celibato sacerdotale non significa semplicemente non sposarsi. non avere una famiglia. Rappresenta l’amore indiviso per Cristo nella castità; nulla e nessuno mi separerà dall’amore di Cristo. Non si tratta soltanto di una lista di no, si tratta di amore. E’ libertà di amare e di essere tutto per tutti gli uomini. Per questo abbiamo bisogno della libertà, della povertà e della semplicità di vita. Gesù avrebbe potuto avere tutto, ma scelse di non avere nulla. Anche noi dobbiamo scegliere di non avere e di non godere di certi lussi. Perché meno abbiamo per noi stessi, più Gesù può donarci, e più abbiamo per noi stessi, meno Gesù può donarci. Quali sacerdoti, dovete essere capaci di provare la gioia di questa libertà, di non aver nulla, di non avere nessuno; allora potrete amare Cristo con amore indiviso nella castità. Ecco perché quando un sacerdote è completamente libero di amare Cristo, l’opera che compie nell’obbedienza è il suo amore per Cristo in azione. Il preziosissimo Sangue è nelle sue mani, può spezzare il Pane di Vita e darlo a quanti hanno fame di Dio.

Tutti coloro che sono chiamati a seguire Gesù nel celibato sacerdotale e a condividere il suo sacerdozio, preghino e chiedano il coraggio di donare… “ di donare fino al dolore”. Questa donazione rappresenta il vero amore in azione e possiamo operarla soltanto quando siamo una cosa sola con Lui, perché soltanto in lui, con lui e attraverso di lui, Gesù potrà fare grandi cose, ancora più grandi di quelle che ha già fatto.

Non ci sono paragoni per la vocazione del sacerdote. E’ come un sostituire Gesù sull’altare, nel confessionale e in tutti gli altri sacramenti in cui egli usa il pronome “ Io ”, come Gesù. Pensate come il sacerdote deve essere una sola cosa con Gesù perché Lui lo usi al suo posto, nel suo nome, per pronunciare le sue parole, per compiere le sue azioni, per cancellare i peccati, per trasformare il semplice pane e vino nel Pane di Vita del suo Corpo e nel suo Sangue. Solo nel silenzio del suo cuore egli può ascoltare la parola di Dio e dalla pienezza del suo cuore può pronunciare queste parole: “Io ti assolvo” e “Questo è il mio Corpo”. Come deve essere pura la bocca del sacerdote e come deve essere puro il suo cuore perché egli possa pronunciare le parole: “ Questo è il mio Corpo” e trasformare il pane nel Gesù vivente. Come devono essere pure le mani del sacerdote, come deve essere completa l’identificazione con le mani di Gesù, se in esse, quando egli alza quelle mani, c’è il Preziosissimo Sangue di Gesù. Un peccatore si viene a confessare oppresso dal peccato, e quando lascia il confessionale è un peccatore senza peccato. Quanto deve essere puro e sacro un sacerdote per rimettere i peccati e pronunciare le parole: “ lo ti assolvo ”! Per me il sacerdozio è la sacralità, la santità per cui Cristo è venuto sulla terra e si è fatto uomo per vivere l’amore e la compassione di suo Padre, e per cancellare il peccato. Abbiamo un meraviglioso esempio di questo nell’esperienza della nostra gente.

“ La suora trovò un uomo e fece per lui tutto ciò che l’amore può fare per un uomo chiuso in se stesso per tanti anni. Per due giorni lui non parlò. Il secondo giorno disse: “Lei ha portato Dio nella mia vita, mi porti anche un Padre”. Così la suora gli portò un sacerdote e lui si confessò dopo sessant’anni. Il giorno successivo mori ”.

Ecco cos’è il sacerdote; il “vincolo di unione” tra l’uomo e Dio, proprio come Gesù, per cancellare il peccato. Dio entra nella vita dell’uomo, ma il perdono per i suoi peccati deve avvenire attraverso il sacerdote per ristabilire pienamente il rapporto con Dio.

E’ stato un miracolo di grazia quello che è avvenuto nell’uomo che si era allontanato da Gesù per tanti anni, e lui lo ha espresso in modo bellissimo: “ Lei ha portato Dio nella mia vita… mi porti anche un Padre ”. Quella relazione, quella misericordia, quella cancellazione dei suoi peccati, gli sono venute grazie alle mani del sacerdote e alle parole del sacerdote.

Il sacerdote deve anche proclamare Cristo. E non può proclarmarlo se il suo cuore non è pieno di Dio; e Dio è amore. Ecco perché ha bisogno di ascoltare la voce di Dio nel silenzio del suo cuore, perché soltanto allora, dalla pienezza del suo cuore, egli può pronunciare la parola di Dio.

Voi, quali sacerdoti di Dio, siete i suoi strumenti vivi, e quindi dovete sempre consentirgli di fare di voi esattamente ciò che vuole per la gloria del Padre. Lo stesso Spirito vi inviterà a vivere un’unione sempre più stretta con Gesù, nel cuore, nella mente e nell’azione, affinché tutto ciò che farete e direte sia per lui, con lui e verso di lui. Ed egli è tutt’uno col Padre, così voi dovete essere tutt’uno con Gesù. Come voi siete stati sigillati col suo sacerdozio, cosi lui deve essere colui che vive questo sacerdozio dentro di voi. Nulla e nessuno deve separarvi da Gesù, cosi che possiate dire con san Paolo: “ Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me ”.

Cristo si è fatto Pane di Vita per soddisfare la nostra fame per il suo amore, e diventa affamato cosi che noi possiamo soddisfare la sua fame per il nostro amore. Quando san Paolo stava andando a distruggere i cristiani di Damasco, fu gettato a terra e udì la voce: “ Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? ”. E Paolo chiese: “ Chi sei tu, Signore? ”. Cristo non ha menzionato i cristiani di Damasco: è la stessa cosa. “ Quello che farai al più piccolo dei miei fratelli l’hai fatto a me ”. Se nel mio nome tu offri un bicchier d’acqua, lo hai dato a me. Se nel mio nome ricevi un bambino, ricevi me. E ha fatto anche si che questa fosse una condizione per cui al momento della morte saremo giudicati su quello che siamo stati e su quel che abbiamo fatto. Egli fa di se stesso l’affamato, l’ignudo, il forestiero, l’ammalato, l’abbandonato, il rifiutato, il reietto, e dice: “ Ero affamato e mi avete dato da mangiare ”. Non avevo fame solo di pane, avevo fame di amore. Ero nudo non solo di un capo di vestiario, ma ero nudo dell’umana dignità di un figlio di Dio. Ero un senzatetto bisognoso non solo di una casa fatta di mattoni, ero forestiero, reietto, abbandonato, senza amore, uno scarto della società, e voi mi avete fatto questo. Gesù nell’Eucaristia diventa Pane di Vita per soddisfare la nostra fame di Dio, perché tutti siamo stati creati per amare e per essere amati. E quel che Gesù vuole è molto chiaro, perché come facciamo ad amare Dio? Dov’è Dio? Dio è in ogni luogo. Come amiamo Dio? Perciò ci offre la possibilità di fare agli altri quello che vorrebbe noi facessimo a lui. Far diventare il suo amore per lui un’azione viva. Per questo quindi ogni vocazione sacerdotale non è semplicemente fare questo o quello; un sacerdote è stato creato per essere totalmente – corpo, mente, cuore, ogni fibra dei suo essere, ogni fibra della sua anima – di Dio, perché Lui lo ha chiamato per nome. Un sacerdote per Lui è molto prezioso, un sacerdote è amato teneramente da Dio, da Gesù che lo ha scelto perché sia il “secondo se stesso” – E l’opera che è stata affidata al sacerdote è soltanto un mezzo per mettere in azione viva il suo tenero amore per Dio.

Quindi il lavoro che egli compie è sacro. E questo impegno deve sempre portare a Dio non soltanto se stesso, ma deve essere in grado di condurre le anime a Dio. Ecco perché Gesù ha detto: “Lasciate che vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre”.

Voi dovete essere la radiosità di Gesù stesso. Il vostro sguardo deve essere il suo, le vostre parole le sue. La gente non cerca i vostri talenti, ma Dio in voi. Conducetela a Dio, mai verso voi stessi. Se non la conducete a Dio significa che cercate voi stessi e la gente vi amerà soltanto per voi, non perché le ricorderete Gesù. Il vostro desiderio deve essere di “ offrire soltanto Gesù ” nel vostro ministero, piuttosto che voi stessi. Ricordate che soltanto la vostra comunione con Gesù porta alla comunicazione di Gesù. Come Gesù era strettamente unito al Padre tanto da essere il suo splendore e la sua immagine, cosi, con la vostra unione con Gesù, voi diventate la sua radiosità, una trasparenza di Cristo, affinché quelli che vi hanno visto in certo qual modo avranno visto lui.

Per poter essere veramente sacerdoti secondo il Cuore di Gesù avete bisogno di pregare molto e di tanta penitenza. Un sacerdote ha bisogno di unire il proprio sacrificio al sacrificio di Cristo se vuole veramente essere una cosa sola con lui sull’altare.

Quando Sua Santità Paolo VI è morto ho ricevuto una telefonata da Londra nella quale mi si chiedeva cosa pensavo della morte del Santo Padre e io ho detto: “ Era santo, era un padre amorevole. Amava molto i bambini e i poveri e aveva un amore speciale per i Missionari della Carità. E’ tornato alla casa di Dio e adesso noi possiamo pregarlo ”. Ciò che ho detto del Santo Padre era vero perché, quando stava per morire, il Segretario celebrò la Messa accanto al suo letto.

Lui ebbe un attacco di cuore proprio al momento della consacrazione. Collegate questo fatto a quanto egli aveva detto l’anno precedente, quando qualcuno gli disse che stava soffrendo troppo, che stava continuando la Passione di Cristo, che stava soffrendo soprattutto per quello che accadeva al l’interno della Chiesa, a causa di vescovi, sacerdoti e religiosi che lasciavano la Chiesa. Il Santo Padre non si mise a discutere o a spiegare, ma disse una frase breve e chiara: “ Sto soltanto vivendo la mia Messa”.

Con la vostra vita impregnata di Eucaristia, l’amore di Dio in Gesù”, nascosto dietro le umili sembianze del pane e del vino, può essere vissuto in tutta la sua grandezza e bellezza nei più piccoli eventi della vita quotidiana. Dovete continuare la vostra Messa oltre la sua celebrazione quotidiana durante la liturgia, con la vostra fedeltà alle piccole cose che momento per momento segnano la vostra vita. Come le gocce d’olio che alimentano la lampada che brucia continuamente accanto a Gesù vivo nel tabernacolo, la vostra vita deve proseguire come un’estensione viva dell’Eucaristia che offrite. Con questo Pane voi dovete essere spezzati per molti, con questo calice la vostra vita deve essere versata. La carità è amore in azione.

Oggi molti sacerdoti sono sempre più impegnati in opere sociali e nello sviluppo sociale trascurando le opere del loro sacerdozio. Ma ci sono molte persone che si potrebbero impegnare al loro posto in tanti settori.

In un sacerdote, la gente ha bisogno di trovare un autentico uomo del sacro che la conduca a Dio, che le porti Gesù.

Non ha bisogno di un sacerdote che compia opere sociali. Molte brave persone possono farlo mille volte meglio e non è affatto giusto che noi ci appropriamo di attività che altri possono svolgere in modo più efficace.

Nessuno può compiere quell’opera sacerdotale che siete chiamati ad assolvere; soltanto voi in quanto Suoi sacerdoti potete farlo. Perciò non sostituite altri impegni, per quanto belli possano essere, a quello del vostro sacerdozio. I preti devono essere esclusivamente tali!

I Padri Missionari della Carità, fondati nell’ottobre del 1984, uniscono la grandezza e il potere del sacerdozio al carisma loro proprio, e in tal modo la testimonianza della verità del vangelo viene predicata ai poveri.

Penso che molti, moltissimi sacerdoti siano chiamati, anche senza comprenderlo, a donarsi totalmente al Signore. Si, il mondo ha una grande necessità di Sacerdoti, Sacerdoti Santi, del celibato sacerdotale, perché il mondo ha bisogno di Cristo. Dubitare del valore dei sacerdozio di una persona e del celibato sacerdotale di una persona nel mondo d’oggi significa dubitare dell’autentico valore di Cristo e della sua missione, perché essi sono una cosa sola. La missione di Cristo è la nostra missione.

E’ inconcepibile che noi possiamo allontanarci da Dio Onnipotente per chinarci verso una creatura per quanto buona possa essere. Gesù non è l’unico che può colmarvi fino all’orlo dell’amore di Dio? Non sorprende quindi che le coppie sposate interpellino la Chiesa. Nella Chiesa cattolica il divorzio non esiste e mai potrà esistere.

Perché la Chiesa non può concedere il divorzio a due coniugi e invece un prete può lasciare il suo sacerdozio? Un sacerdote può ottenere una dispensa, ma nessuno potrà mai privarlo del suo sacerdozio. Una volta sacerdote, resta sacerdote per sempre. Anche all’inferno egli rimane un sacerdote. La Chiesa tuttavia può legittimamente e opportunamente privarlo dell’esercizio dei suoi poteri sacerdotali.

Maria Madre dei Sacerdoti
Contemplate la nostra Beata Signora, la Madre di Gesù che sta ai piedi della Croce di suo Figlio, nostro unico Sommo Sacerdote e accanto a Lei san Giovanni l’apostolo e sacerdote prediletto. Gesù ha detto a Lei: “Donna, ecco tuo figlio ” e a lui: “ Figlio, ecco tua madre ”.

Nessuno avrebbe potuto essere miglior sacerdote della Vergine Madre di Dio, perché lei potrebbe veramente dire senza difficoltà: “ Questo è il mio Corpo… questo è il mio Sangue ”, in quanto è stato realmente il suo corpo e il suo sangue che lei ha donato a Gesù. Eppure resta soltanto la Serva del Signore, cosicché voi e io possiamo sempre guardare a lei come nostra Madre. E lei è una di noi, – cosicché possiamo sempre chiedere a lei, rivolgerci a lei ed essere una cosa sola con lei.

Naturalmente questo è il motivo per cui è stata lasciata sulla terra, per fondare la Chiesa, per confermare il sacerdozio degli Apostoli, per far loro da Madre finché la Chiesa, la giovane Chiesa non fosse formata. Lei era lì. Perché, come aveva aiutato Gesù a crescere, così potesse aiutare a crescere anche la Chiesa degli inizi. E’ stata lasciata sulla terra per molti anni dopo che Gesù era asceso al cielo, perché fosse lei a contribuire a plasmare la Chiesa. E’ lei che aiuta a formare ogni sacerdote. Nessuno può rivolgersi a Nostra Signora meglio di un sacerdote. Posso immaginare che lei abbia avuto, e abbia ancora, un amore molto tenero e anche una protezione speciale per ogni sacerdote, se solo egli Le si rivolge.

Com’è bello quindi vedere questa somiglianza con Maria! Noi abbiamo bisogno di Lei! Preghiamola, affinché possa ottenere per noi quel grande e splendido dono che è il celibato sacerdotale, il segno della carità di Cristo. A questo Dio vi chiama quando vi chiama per nome, se Lui vi ha scelti per essere suoi veri sacerdoti, se ha deciso di abbracciarvi con tenerezza e amore. Non abbiate paura, seguitelo.

Lei vi aiuterà, vi guiderà, vi amerà, affinché voi come sacerdoti possiate rendere la presenza di Gesù sempre più reale nel mondo di oggi.

Mettete la vostra mano in quella di Maria e chiedetele di condurvi a Gesù. Quando Gesù è venuto nella sua vita, lei si è affrettata a portarlo agli altri. Voi, suoi sacerdoti, affrettatevi con lei a portare Gesù agli altri. Ma ricordatevi: non potete dare ciò che non avete. Per poter donare, avete bisogno di vivere l’unione con Cristo, e lui è li, nel tabernacolo dove lo avete posto. Fate il proposito, appena iniziate la giornata, di fare di Gesù il centro della vostra vita. Durante il giorno imparate a fare del vostro lavoro una preghiera: lavoro con Gesù, lavoro per Gesù. State sempre vicini a Maria.

Chiedetele di donarvi il suo cuore così bello, cosi puro, così immacolato, il suo cuore tanto pieno di amore e di umiltà, affinché possiate ricevere Gesù e donarlo agli altri nel Pane della Vita. Amate Gesù come lei lo ha amato e servitelo nei dolorosi panni dei poveri, perché leggiamo nella Bibbia che uno dei segni che Gesù era il salvatore atteso era che il vangelo veniva predicato ai poveri.

Il fondamento biblico del celibato sacerdotale

di Ignace de la Potterie S. I.

Da diversi secoli viene discussa la questione se l’obbligo del celibato per i chierici degli Ordini maggiori (o almeno quello di vivere nella continenza per quanti erano sposati) sia di origine biblica oppure risalga soltanto a una tradizione ecclesiastica, dal IV secolo in poi, perché fin da quel periodo, indubbiamente, esiste al riguardo una legislazione irrecusabile. La prima soluzione è stata recentemente presentata di nuovo con una straordinaria dovizia di materiali da C. Cochini: “Origini apostoliche del celibato sacerdotale”. La posizione dell’autore, chiaramente espressa nel titolo, sembra che si possa e si debba mantenere, purché si tenga attentamente conto con lui, meglio forse che nel passato, della crescita della tradizione antica, punto sul quale hanno insistito anche A. M. Stickler nella sua prefazione e H. Crouzel in una recensione; in altri termini, si deve dire che l’obbligo della continenza (o del celibato) è diventato legge canonica soltanto nel IV secolo, ma che anteriormente, fin dal tempo apostolico, veniva già proposto ai ministri della Chiesa l’ideale di vivere nella continenza (o nel celibato); e che quell’ideale era già profondamente sentito e vissuto come una esigenza da parecchi (per esempio Tertulliano e Origene), ma che non era ancora imposto a tutti i chierici degli Ordini maggiori: era un principio vitale, una semente, chiaramente presente fin dal tempo degli apostoli, ma che doveva poi progressivamente svilupparsi fino alla legislazione ecclesiastica del IV secolo.

In questa medesima linea sembra orientarsi anche il recente Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1579), il quale, prudentemente, non menziona nemmeno la legge canonica del celibato, che pur esiste sempre nel diritto attuale della Chiesa (CIC 277, § 1), ma indica soltanto le sue motivazioni bibliche: però, anche qui, non rimanda più (come spesso nel passato) all’Antico Testamento, cita solo due passi del Nuovo Testamento: quello di Mt 19,12, sul celibato ” per il Regno dei cieli “, poi il testo paolino di 1 Cor 7,32, dove si parla di coloro che sono “chiamati a consacrarsi con cuore indiviso al Signore e alle “sue cose” “; e si aggiunge infine che, “abbracciato con cuore gioioso, esso (il celibato) annuncia in modo radioso il Regno di Dio”. Certo, si potrebbero ancora citare qui altri passi del Nuovo Testamento a cui rimandava, per esempio, Paolo VI nella sua Enciclica Sacerdotalis coelibatus (nn. 17-35), per indicare le ragioni del sacro celibato (il suo significato cristologico, ecclesiologico ed escatologico). Ma il problema è che questi diversi testi descrivono, come un ideale tipicamente cristiano, il valore teologico e spirituale del celibato in genere; questo ideale, però, vale anche per i religiosi e per le persone consacrate nel mondo; non indicano una connessione speciale con i ministeri nella Chiesa.

La domanda precisa che si pone quindi è questa: esistono nella Sacra Scrittura dei testi che indichino un nesso specifico tra celibato e sacerdozio? Sembra di sì. Ma si dovrebbero a questo scopo meglio valutare certi passi neotestamentari che stranamente non vengono quasi più presi in considerazione nelle discussioni recenti: sono i testi in cui viene proposta la norma paolina (molto controversa, è vero) dell'” unius uxoris vir “, per l’analisi della quale anche C. Cochini ha portato recentemente materiali nuovi. Questo principio, enunciato più volte nelle Lettere Pastorali, ha nel nostro caso un’importanza unica per due ragioni. La prima é, come hanno mostrato bene tanto A. M. Stickler quanto C. Cochini, che la clausola è una delle formule principali sulle quali si basava la Tradizione antica per rivendicare proprio l’origine apostolica della legge del celibato sacerdotale. Questo però era senza dubbio un enorme paradosso: come è possibile fondare il celibato dei sacerdoti partendo da testi che parlano di ministri sposati? Un tale ragionamento può avere qualche senso soltanto se si trova tra i due estremi (il matrimonio dei ministri e il celibato) un termine medio: è quello della continenza a cui si obbligavano proprio i ministri sposati. E probabilmente perché questo valore di mediazione della continenza non è stato più capito in seguito, che in tempi recenti la formula ” unius uxoris vir ” non è più stata usata nelle discussioni sul celibato. E’ molto opportuno oggi riesaminare attentamente quell’argomento tradizionale. L’altra ragione per cui questi testi sono specialmente importanti dal punto di vista strettamente biblico sta nel fatto che sono gli unici passi del Nuovo Testamento in cui viene emanata una norma identica per i tre gruppi dei ministri ordinati, e solo per loro: infatti, secondo le Lettere Pastorali, deve essere ” unius uxoris vir” sia l’episcopo (1 Tm 3,2), sia il presbitero (Tt 1,6), sia il diacono (1 Tm 3,12), mentre quella formula (tecnica a quanto sembra) non viene mai adoperata per gli altri cristiani. C’è qui dunque una esigenza specifica per l’esercizio del sacerdozio ministeriale in quanto tale. D’altra parte, si deve osservare anche che la formula complementare ” unius viri uxor” (1Tm 5,9) viene usata soltanto per una vedova di almeno sessant’anni, ossia, non per una cristiana qualsiasi, ma per una donna anziana che esercitava anch’essa un ministero nella comunità (possiamo paragonarlo a quello delle diaconesse nella tradizione antica). Il carattere stereotipato di questa formula delle Pastorali fa sospettare che doveva essere già radicata in una lunga tradizione biblica .

Che cosa significa dunque il fatto che il ministro della Chiesa doveva essere “l’uomo di una sola donna”?

Nelle pagine seguenti vorremmo mostrare innanzi tutto che la formula “unius uxoris vir” fin dal IV secolo era intesa, come lo spiega bene A. M. Stickler, ” (nel) senso di un argomento biblico in favore del celibatod’ispirazione apostolica: si interpretava infatti la norma paolina nel senso di una garanzia che permetteva di assicurare l’osservanza effettiva dellacontinenza presso i ministri sposati prima della loro ordinazione”. Nella seconda parte faremo un passo in avanti: proporremo un approfondimento teologico della clausola paolina stessa, per mostrare che, già al livello del Nuovo Testamento, essa propone infatti, per il sacerdozio ministeriale, il modello del rapporto sponsale tra Cristo-Sposo e Chiesa-Sposa, sulla base della mistica del matrimonio di cui Paolo parla più volte nelle sue lettere (cfr. 2Cor 11,2; Ef 5,22-32); partendo da lì, apparirà abbastanza chiaro che, per i ministri sposati, la loro ordinazione implicava l’invito a vivere in seguito nella continenza.

La clausola “unius uxoris vir”: un argomento della tradizione antica per l’origine apostolica del celibato-continenza

La legislazione ecclesiastica a partire dal IV secolo

C’è un accordo generale tra gli studiosi per dire che l’obbligo del celibato o almeno della continenza è diventato legge canonica fin dal IV secolo. Ripetutamente vengono citati qui diversi testi inconfutabili: tre decretali pontificie attorno al 385 (” Decreta” e ” Cum in unum ” del papa Siricio, ” Dominus inter” di Siricio o di Damaso) e un canone del concilio di Cartagine del 390.

Ma è importante osservare che i legislatori del IV o V secolo affermavano che questa disposizione canonica era fondata su una tradizione apostolica. Diceva per esempio il concilio di Cartagine: conviene che quelli che sono al servizio dei divini sacramenti siano perfettamente continenti (continentes esse in omnibus), ” affinché ciò che hanno insegnato gliapostoli e ha mantenuto l’antichità stessa, lo osserviamo anche noi”. Fu poi votato all’unanimità il decreto stesso sull’obbligo della continenza:”Piace a tutti che il vescovo, il presbitero e il diacono, custodi della purezza, si astengano dall’unione coniugale con le loro spose (ab uxoribus se abstineant), affinché venga custodita la purezza perfetta di coloro che servono all’altare”. Non viene esplicitamente citato qui l'” unius uxoris vir ” paolino; ma il riferimento a quella clausola è implicito, perché vengono menzionati, come nelle Pastorali, i vescovi, i sacerdoti e i diaconi. Del resto, la citazione di 1Tm 3,2 è perfettamente esplicita in un testo un po’ anteriore, la decretale “Cum in unum” di Siricio stesso, che presentava le norme del concilio di Roma del 386; qui, il papa formula prima una obiezione: l’espressione “unius uxoris vir” di 1Tm 3,2, dicevano alcuni, esprimerebbe per il vescovo proprio il diritto di usare del matrimonio dopo l’ordinazione sacra; Siricio risponde presentando la propria interpretazione della clausola: “Egli (Paolo) non ha parlato di un uomo chepersisterebbe nel desiderio di generare (non permanentem in desiderio generandi dixit); ha parlato in vista della continenza che avrebbero da osservare in futuro (propter continentiam futuram)”. Questo testo fondamentale è stato ripetuto diverse volte in seguito; viene commentato cosi da C. Cochini: ” La monogamia, [ossia la legge dell`unius uxoris vir] è una condizione per accedere agli Ordini, perché la fedeltà [finoraosservata] a una sola donna è la garanzia per verificare che il candidato sarà capace [in futuro] di praticare la continenza perfetta che verrà chiesta da lui dopo l’ordinazione”. E l’autore prosegue: “Questa esegesi delle prescrizioni di san Paolo a Timoteo e a Tito è un anello essenziale col quale i vescovi del sinodo romano del 386 e il papa Siricio si situano in continuità con l’età ” apostolica”.

Ma questa esegesi, per la quale si rivendicava una tradizione apostolica, è veramente fondata? Non senza ragione alcuni lo mettono in dubbio. Infatti si devono porre qui alcune domande: non è un po’ strano scoprire nel comporta mento passato del ministro sposato (cioè la sua fedeltà a una sola donna, anche nei rapporti sessuali) una sufficiente garanzia per il suo comportamento futuro, ma diverso (ossia la continenza nelle relazioni coniugali con quella medesima donna, la sua legittima sposa?) I legislatori vedevano nel passato una garanzia per il futuro, ma stavano operando allo stesso tempo un cambiamento di registro: dall’uso (legittimo) del matrimonio alla rinuncia a quello. Per legittimare quel doppio passaggio, dal passato al futuro e dai rapporti sessuali alla continenza coniugale, ci vuole un tertium quid che lo spieghi: una tale legittimazione sarà possibile soltanto se si presenta di questa formula stessa un’interpretazione che ne faccia vedere forse qualche aspetto nascosto che finora non si era visto. E’ ciò che cercheremo di fare nella seconda parte.

Ma vorremmo prima esaminare brevemente se non ci sono, nella storia dell’esegesi e della legislazione canonica, degli elementi che aiutino a comprendere più profondamente la clausola paolina.

b) Motivazioni teologiche della continenza

e del celibato dei sacerdoti

Dal tempo dei Padri fino a oggi ci troviamo confrontati con due interpretazioni diverse della formula paolina: per gli uni, la norma “unius uxoris vir ” proibisce la poligamia successiva; per gli altri, soltanto la poligamia simultanea.

La prima soluzione è senz’altro la più tradizionale: l’espressione significa allora che i ministri sacri potevano, sì, essere uomini sposati. ma una volta soltanto; e se la moglie era morta. non potevano aver fatto un secondo matrimonio e non potevano risposarsi. Oggi ancora, questa interpretazione è la più comune tra gli esegeti cattolici. Secondo l’altra soluzione, invece, ” unius uxoris vir ” significa soltanto l’interdizione di vivere contemporaneamente con diverse donne: sarebbe semplicemente la raccomandazione di osservare la morale coniugale.

Ma nessuna delle due soluzioni è pienamente soddisfacente. Alla prima si obietta: se l’unione in cui viveva finora il ministro sposato era onesta, perché non avrebbe potuto esserlo un secondo matrimonio, dopo la morte della consorte? E’ tanto più vero che l’Apostolo stesso da una parte richiedeva che la vedova anziana che serviva la comunità fosse stata “unius viri uxor” (1Tm 5,9), dall’altra consigliava alle giovani di risposarsi (1Tm 5,14).Ma l’altra soluzione fa ugualmente difficoltà.: la fedeltà coniugale nella vita matrimoniale è certamente richiesta da tutti i cristiani. Per quale motivo allora l’espressione ” unius uxoris vir ” (e analogamente ” unius viri uxor “) viene usata unicamente per coloro che esercitano un ministero nella comunità?

Aggiungiamo che la seconda interpretazione non va oltre il semplice livello della morale generale: applicata ai ministri della Chiesa ha qualcosa di banale, di riduttivo. La prima – l’interdizione di un secondo matrimonio – è piuttosto di carattere disciplinare e canonico, ma non viene indicato il suo fondamento teologico. La stessa lacuna, del resto, si notava già per la legislazione canonica del secolo IV: papa Siricio e tanti altri dopo di lui leggevano nella clausola paolina l’obbligo alla continenza per il clero sposato. Davano, è vero, un argomento: la purezza richiesta per avvicinarsi all’altare. Ma bisogna riconoscere che di quello non si parla affatto nel testo delle Pastorali.

Alla fine della sua indagine storica, anche A. M. Stickler riconosceva che, in tutto questo problema del celibato sacerdotale, si era rimasti troppo al livello giuridico; in quella lunga storia é mancata la riflessione teologica sul senso profondo del sacerdozio ministeriale, sulla motivazione del suo celibato e sul suo valore spirituale. Questo è particolarmente vero per l’uso canonico che si faceva della norma ” unius uxoris vir”, dal secolo IV in poi. Bisogna quindi cercare, nella tradizione patristica e canonica stessa, se venivano date talvolta delle motivazioni teologiche, per fondare sulla clausola paolina l’obbligo disciplinare della continenza del clero.

Tre testimonianze sono qui significative.

In primo luogo quella di Tertulliano, all’inizio del III secolo. Egli ricorda che la monogamia non è solo una disciplina ecclesiastica, ma anche un precetto dell’Apostolo. Risale quindi al tempo apostolico. D’altra parte, insiste sul fatto che parecchi credenti, nella Chiesa, non sono sposati, vivono nella continenza, e che diversi di loro appartengono agli ” Ordini, ecclesiastici “; ora, gli uomini e le donne che vivono così, prosegue Tertulliano, ” hanno preferito sposare Dio ” (Deo nubere maluerunt); a proposito delle vergini, egli precisa che sono ” spose di Cristo”. Ma quale legame c’è tra il matrimonio monogamico da una parte e la continenzadall’altra? Tertulliano non lo dice, ma porta qui l’esempio di Cristo che, secondo la carne, non era sposato, viveva da celibe (non era quindi “un uomo di una sola donna”); però, nello spirito, ” aveva una sola sposa, la Chiesa ” (unam habens ecclesiam sponsam). Questa dottrina delle nozzespirituali di Cristo con la Chiesa, ispirata qui dal testo paolino di Ef 5,25-32, era comune nel cristianesimo antico; Tertulliano vedeva in quelle nozze spirituali uno dei principali fondamenti teologici della legge del matrimonio monogamico: ” perché uno è” il Cristo e una la sua Chiesa ” (unus enim Christus et una eius ecclesia).Non risulta però che Tertulliano abbia già connesso questa dottrina con le formule “unius uxoris vir” o “unius viri uxor” delle Lettere Pastorali, dove si parla esplicitamente del matrimonio monogamico; è quella connessione dei due temi che noi invece cercheremo di stabilire più avanti. Del resto, il ragionamento di Tertulliano, nell’ultimo testo citato, non era veramente fondato: il problema di Ef 5,25-32 non era quello del matrimonio monogamico: era, in genere, il problema del rapporto di ogni matrimonio cristiano conl’Alleanza; Paolo parla li di tutti gli sposi nella Chiesa; quando l’Apostolo, con un riferimento a Gn 2,24, dice che l’uomo e la donna ” saranno una sola carne ” (v. 31), egli legittima per loro l’uso del matrimonio; la formula ” unius uxoris vir ” delle Lettere Pastorali, invece, non viene usata per tutti gli sposi, ma unicamente per i ministri della Chiesa (questo fatto è stato troppo poco osservato); anzi, in seguito verrà considerata come la base biblica della legge della continenza per i chierici. Questo è il punto che rimane da chiarire.

Con sant’Agostino facciamo un passo avanti. Egli, che aveva preso parte ai lavori dei sinodi africani, conosceva certamente la legge ecclesiastica della “continenza dei chierici”. Ma come Agostino spiega allora la clausola “unius uxoris vir ” che viene usata da Paolo per i chierici sposati? Nel De bono coniugali (verso il 420) egli ne propone una spiegazione teologica, e si domanda perché la poligamia era accettata nell’Antico Testamento, mentre “nel nostro tempo, il sacramento è stato ridotto all’unione fra un solo uomo e una sola donna; e di conseguenza non è lecito ordinare ministro della Chiesa (Ecclesiae dispensatorem) se non un uomo che abbia avuto una sola moglie (unius uxoris virum) “; ed ecco la risposta di Agostino: “Come le numerose mogli (plures uxores) degli antichi Padri simboleggiavano le nostre future chiese di tutte le genti soggette all’unico uomo Cristo (uni viro subditas Christo), così la guida dei fedeli (noster antistes, il nostro vescovo) che è l’uomo di una sola donna (unius uxoris vir) significa l’unità di tutte le genti soggette all’unico uomo Cristo (uni viro subditam. Christo)”. In questo testo, dove troviamo la formula “unius uxoris vir” applicata al vescovo. Tutto l’accento cade sul fatto che lui, “l’uomo “, nelle relazioni con la sua “donna”, simboleggia il rapporto tra Cristo e la Chiesa. Un uso analogo dei termini uomo e donna si trova in un passo del De continentia: “L’Apostolo ci invita a osservare per così dire tre coppie (copulas): Cristo e la Chiesa, il marito e la moglie, lo spirito e la carne”. Il suggerimento fornitoci da questi testi per l’interpretazione della clausola “unius uxoris vir” applicata al ministro (sposato) del sacramento è che egli, come ministro, non rappresenta soltanto la seconda coppia (il marito e la moglie), ma anche la prima: egli impersona ormai Cristo nel suo rapporto sponsale con la Chiesa. Abbiamo qui il fondamento della dottrina che diventerà classica: ” Sacerdos alter Christus “. Il sacerdote, come Cristo, è lo sposo della Chiesa.

Un’ultima parola ancora sulla legislazione canonica del Medioevo. Diverse volte, nei libri penitenziali, si dice che, per un chierico sposato, avere ancora, dopo l’ordinazione, dei rapporti coniugali con la propria moglie, rappresenterebbe un’infedeltà alla promessa fatta a Dio; anzi, sarebbe un adulterium, perché, essendo quel ministro ormai sposo della Chiesa, il suo rapporto con la propria sposa ” appare come una violazione di un legame matrimoniale”. Questa pesante accusa a un uomo legittimamente sposato e onesto può soltanto avere senso se si sottintende, come una cosa risaputa, che il ministro sacro, dal momento della sua ordinazione, vive ormai in un altro rapporto, anch’esso di tipo sponsale, quello che unisce Cristo e la Chiesa, nel quale egli, il ministro, l’uomo (vir), rappresenta Cristo-Sposo; con la propria sposa (uxor), quindi, ” l’unione. carnale deve (ormai) diventare spirituale “, come diceva san Leone Magno.

Con queste diverse premesse storiche e teologiche, abbiamo raccolto abbastanza materiale per affrontare il problema esegetico, cioè per fare un’analisi precisa della formula stessa “unius uxoris vir” delle Lettere Pastorali.

“Unius uxoris vir”: una formula di Alleanza

Abbiamo visto precedentemente che, delle due interpretazioni tradizionali della clausola, l’una (la più diffusa) era di tipo disciplinare, l’altra esclusivamente morale. Ma non veniva quasi mai indicato perché un ministro della Chiesa doveva essere “l’uomo di una sola donna”.Vorremmo mostrare adesso che la ragione di questa norma, il suo senso profondo e le sue implicazioni sono già presenti nel testo stesso, s si riesce ad analizzarlo bene. Bisogna anzitutto chiarire il problema della provenienza di questa formula misteriosa, il cui carattere fisso, tecnico, stereotipato, è innegabile. Diciamo lo subito: la clausola è in realtà una formula di Alleanza Questo diventa chiaro quando si tiene presente il parallelismo tra la formula delle Lettere Pastorali con il passo di 2Cor 11,2, dove Paolo presenta la Chiesa di Corinto come una donna, come una sposa, che egli ha presentato a Cristo come una vergine casta:

” Io sono geloso di voi della gelosia di Dio, perché vi ho fidanzati ad un solo uomo (uni viro), per presentarvi a Cristo come una vergine pura”.

Il contesto di questo brano è specialmente chiaro se connesso con 1Tm 5,9; la stessa formula “unus vir” viene usata per parlare dei rapporti sia della Chiesa, con Cristo, sia di quelli della vedova che ha avuto un solo uomo e che svolge un ministero nella comunità. In 2Cor 11,2, la sposa di Cristo e la Chiesa stessa.

Rileggiamo più attentamente il testo.

La gelosia di cui parla Paolo è una partecipazione alla “gelosia ” di Dio per il suo popolo: è lo zelo da cui è divorato l’Apostolo affinché i suoi cristiani rimangano fedeli all’Alleanza fatta con Cristo, che è il loro vero e unico Sposo. Un altro dettaglio conferma questa lettura: la Chiesa-Sposa viene paradossalmente presentata a Cristo-Sposo come “una vergine pura”; è un rimando alla Figlia di Síon, talvolta chiamata dai profeti “vergine Sion”, “vergine Israele”, specialmente quando viene invitata, dopo le infedeltà del passato, a essere di nuovo fedele all’Alleanza, al suo rapporto sponsale con il suo unico Sposo.

L’altro passo decisivo del Nuovo Testamento è il testo classico di Ef 5,22-33: l’uomo e la donna, uniti in matrimonio, sono l’immagine di Cristo e della Chiesa; ora il Cristo, lo Sposo, ha offerto se stesso per la Chiesa, al fine di farsene una sposa gloriosa, santa e immacolata (cfr. vv. 26-27).

Ma il fatto che l’espressione ” unius uxoris vir ” non venga usata qui nella lettera agli Efesini per tutti gli sposi cristiani, e sia riservata nelle Pastorali al ministro sposato, mostra che la formula fa direttamente riferimento al ministero sacerdotale e al rapporto Cristo-Chiesa: il ministro deve essere come Cristo-Sposo.

Sottolineiamo un’altra conseguenza importante del collegamento tra “unius uxoris vir” (o “unius viri uxor”) delle Pastorali con il passo di 2Cor 11,2: è il fatto che la Chiesa-Sposa è chiamata “vergine pura”. L’amore sponsale tra il Cristo-Sposo e la Chiesa-Sposa rimane sempre un amore verginale.

Per la Chiesa di Corinto (dove ovviamente la grande maggioranza dei cristiani era sposata), si trattava direttamente di ciò che Agostino chiama la virginitas fidei, la virginitas cordis, la fede incontaminata , ben descritta anche da san Leone Magno: ” Discat Sponsa Verbi non alium virum nosse quam Christum”. Ma per i ministri sposati di cui parlano le Lettere Pastorali, è normale che – in quella visione mistica del loro ministero – l’appello radicale alla virginitas cordis sia stato vissuto da loro anche come un appello alla virginitas carnis verso la propria moglie, ossia, quale appello alla continenza, come è diventato chiaro nella Tradizione, almeno dal secolo IV in poi. Non si tratta più, allora, di una prescrizione ecclesiastica, esteriore, bensì di una percezione interiore del fatto che l’ordinazione fa di lui, come ministro, un rappresentante di Cristo-Sposo, in relazione con la Chiesa, Sposa e Vergine, e che non può quindi vivere con un’altra sposa.

Il rapporto decisivo dell'” unius uxoris vir ” delle Pastorali con la “vergine pura” di 2Cor 11, 2 è stato sottolineato anche molto bene da E. Tauzin: gli uomini che sono consacrati a Dio, dice, “devono rappresentare Cristo: ora, lui è soltanto lo Sposo di una sola Sposa, la Chiesa: “Virginem castam exhibere Christo””. E applica poi questo principio alla parabola di Mt 25,1-13, dove le dieci “vergini”, che sono (al plurale) le spose di Cristo, rappresentano in realtà la sua unic sposa: “Esteriormente, c’è molteplicità, interiormente l’unità. La migliore immagine esteriore dell’unità interiore non è forse la verginità? “.

Questa argomentazione sacramentale e spirituali dell'”unius uxoris vir”, fondata sulla teologia dell’Alleanza, emerge nella Tradizione occidentale già con Tertulliano, poi con sant’Agostino e san Leone Magno. La troviamo ben compendiata da san Tommaso, nel suo commento di 1Tm 3,2 (“Oportet ergo episcopum… esse, unius uxoris virum”): “Questo si fa, non solo per evitare l’incontinenza, ma per rappresentare il sacramento, perché lo Sposo della Chiesa è Cristo, e la Chiesa è una: “Una est columba mea” (Cant 6,9)”. Ma san Tommaso non fa ancora il confronto con il testo di 2Cor 11,2, che parla della Sposa-Vergine; perciò non aggiunge che il valore di rappresentanza del sacerdozio monogamicocomporta anche per il ministro sposato l’appello alla continenza e, conseguentemente, per coloro che non sono sposati, l’appello al celibato.

Conclusione

Per comprendere bene il modo in cui abbiamo cercato di indicare il fondamento biblico del celibato sacerdotale, è importante distinguere celibato e continenza. Nella Chiesa antica molti sacerdoti erano sposati. Questo spiega il fatto che, proprio per parlare dei ministri della Chiesa, venisse usata la formula “unius uxoris vir”; spiega inoltre il grande interesse dei Padri per il matrimonio monogamico (cfr. per esempio Tertulliano: De monogamia). Ma è diventato sempre più chiaro nella Tradizione che per un ministro della Chiesa, unito una sola volta in matrimonio con una donna, l’accettazione del ministero portasse come conseguenza che egli in seguito avrebbe dovuto vivere nella continenza.

In tempi più recenti è stata introdotta la separazione tra sacerdozio e matrimonio. Pertanto la formula ” unius uxoris vir “, intesa alla lettera e materialmente, non è più di applicazione immediata per i sacerdoti di oggi, i quali non sono sposati. Ma, proprio qui, paradossalmente, sta ancora l’interesse della formula. Bisogna partire dal fatto che, nella Chiesa apostolica, veniva usata solo per i chierici; prendeva cosi, oltre il senso immediato dei rapporti coniugali, un senso nuovo, mistico, un collegamento diretto con le nozze spirituali di Cristo e della Chiesa questo lo insinuava già Paolo; per lui, “unius uxoris vir” era una formula di Alleanza: introduceva il ministro sposato nella relazione sponsale tra Cristo e la Chiesa; per Paolo, la Chiesa era una “vergine pura”, era la “Sposa” di Cristo. Ma questo collegamento tra il ministro e Cristo, essendo dovuto al sacramento dell’ordinazione, non richiede più oggi, come supporto umano del simbolismo, un vero matrimonio del ministro; perciò la formula vale tuttora per i sacerdoti della Chiesa, benché non siano sposati; quindi, ciò che nel passato era la continenza per i ministri sposati diventa nel nostro tempo il celibato di quelli che non lo sono. Però il senso simbolico e spirituale dell’espressione ” unius uxoris vir ” rimane sempre lo stesso. Anzi, poiché contiene un riferimento diretto all’Alleanza, ossia al rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa, ci invita a dare oggi, molto più che nel passato, una grande importanza al fatto che il ministro della Chiesa rappresenta Cristo-Sposo di fronte alla Chiesa-Sposa. In questo senso, il sacerdote deve essere “l’uomo di una sola donna”; ma quell’unica donna, la sua sposa, è per lui la Chiesa che, come Maria la sposa di Cristo.

E’ proprio così che si esprime diverse volte Giovanni Paolo Il nella sua lettera post-sinodale Pastores dabo vobis.

A mo’ di conclusione, ne citiamo alcuni passi più significativi.

Al n. 12, dopo aver ricordato che, per l’identità del presbitero, non è prioritario il riferimento alla Chiesa, bensì i riferimento a Cristo, il papa continua: ” In quanto mistero infatti, la Chiesa è essenzialmente relativa a Gesù Cristo: Lui, infatti, è la pienezza, il corpo, la sposa ( … ). Il presbitero trova la verità piena della sua identità nell’essere una derivazione, una partecipazione specifica e una continuazione di Cristo stesso, sommo e unico sacerdote della nuova ed eterna Alleanza: egli è un’immagine viva e trasparente di Cristo sacerdote. Il sacerdozio di Cristo, espressione della sua assoluta “novità” nella storia della salvezza, costituisce la fonte unica e il paradigma insostituibile del sacerdozio del cristiano e, in specie, del presbitero. Il riferimento a Cristo è allora la chiave assolutamente necessaria per la comprensione delle realtà sacerdotali “.

Sulla base di questa strettissima unità tra il presbitero e Cristo, si comprende meglio la ragione teologica profonda del celibato.

Il n. 22 è intitolato: “Testimone dell’amore sponsale di Cristo”. Più avanti: “Il sacerdote è chiamato a essere immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa “. Cita poi una proposizione del sinodo: ” In quanto ripresenta Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa, il sacerdote si pone non solo nella Chiesa ma anche di fronte alla Chiesa “.

Al n. 29, proprio nel paragrafo dove parla della verginità e del celibato, il Santo Padre cita per intero la propositio 11 del sinodo su questo argomento; poi, per spiegare la ” motivazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato “, scrive: ” La volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione nel legame che il celibato ha con l’Ordinazione sacra,che configura il sacerdote e Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo Capo e Sposo l’ha amata “.


 
 
 

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